Pillole di Cardionefrologia (8 Aprile 2019)
E’ noto che la sospensione della terapia con ACE – inbitori è raccomandata nel momento in cui si documenta un incremento acuto pari ovvero superiore al 30% dei livelli sierici di creatinina nei pazienti che hanno iniziato questo tipo di terapia. Allo stesso tempo, però, non sono stati ancora del tutto delucidati gli effetti a lungo termine della sospensione ovvero della continuazione della terapia sui principali outcomes clinici,
Nel trial ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron Modified Release Controlled Evaluation), 11140 pazienti diabetici sono stati assegnati in modo randomizzato a terapia con associazione perindopril/indapamide ovvero a placebo dopo un periodo di arruolamento di 6 settimane. La gran parte dei pazienti arruolati presentava almeno due misurazioni della creatinine mia prima e durante il periodo di arruolamento attivo. Basandosi sull’incremento acuto dei livelli di creatinina sierica, sono stati definiti 4 gruppi di soggetti: pazienti con incremento inferiore al 10%, compreso tra il 10 ed il 19%, compreso tra il 20 ed il 29% ed, infine, maggiore ovvero uguale al 30%.
L’outcome primario, di tipo composito, era rappresentato da eventi cardiovascolari maggiori, nuovo esordio (ovvero peggioramento) della nefropatia e moratlità per tutte le cause.
Un incremento acuto dei livelli sierici di creatinina era associato con un elevato rischio di out come primario con hazard ratios variabili da 1.11 a 1.44 in base alla percentuale di incremento della creatinine mia.
Allo stesso tempo, però, la prosecuzione della terapia con perindopril/indapamide determinava una riduzione del rischio a lungo termine di eventi cardiovascolari maggiori, nonostante il brusco incremento della creatinine mia.
Fonte: Hypertension. 2019 Jan;73(1):84-91.
Il profilo “proteico” dei pazienti con malattia renale cronica terminale può fornire informazioni preziose riguardanti il profilo di rischio cardiovascolare di questi pazienti e le dinamiche fisiopatologiche che sottendono alla genesi degli stessi eventi cardiovascolari.
Allo scopo di verificare l’eventuale nesso fisiopatologico tra livelli sierici di determinate plasma proteine e rischio di patologia cardiovascolare, sono state testate 92 proteine plasmatiche diverse in alcune coorti di pazienti in trattamento dialitico (MIMICK, SKS Dialysis Study e CKD5-LD-RTx).
Dopo aver effettuato una Cox regression analysis aggiustata per sesso ed età nella coorte del MIMICK, 11 proteine plasmatiche sono state riconosciute come associate a mortalità per cause cardiovascolari (in ordine di importanza: Kidney injury molecule-1 (KIM-1), Matrix metalloproteinase-7, Tumour necrosis factor receptor 2, Interleukin-6, Matrix metalloproteinase-1, Brain-natriuretic peptide, ST2 protein, Hepatocyte growth factor, TNF-related apoptosis inducing ligand receptor-2, Spondin-1, and Fibroblast growth factor 25).
Anche nella coorte dei pazienti arruolati nello studio SKS, KIM-1 si è connotato come fattore predittivo di mortalità cardiovascolare in modelli statistici aggiustati sempre per sesso ed età.
Inoltre, nello studio CKD5-LD-RTx, i pazienti con livelli più elevati di KIM-1 presentavano anche una maggiore estensione delle calcificazioni coronariche come evidenziato dai livelli di CAC score.
In conclusione, quindi, da questo approccio di tipo “proteomico” alla valutazione del rischio cardiovascolare, risulta evidente il ruolo di KIM-1 come il principale tra i biomarcatori di mortalità cardiovascolare e di calcificazione coronarica come evidenziato da ben tre studi di coorte
Fonte: J Nephrol. 2019 Feb;32(1):111-119.
E’ ormai noto che gli inibitori del co – trasportatore SGLT2 (SGLT2i), in grado di ridurre la glicemia grazie all’aumentata frazione d’escrezione renale del glucosio, sembrano essere in grado di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari e renali nei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2.
La motivazione principale risiede in alcune modificazioni di tipo emodinamico, alla riduzione del peso corporeo, nonché ad azioni dirette a livello di funzionalità miocardica, endoteliale e tubulo – glomerulare.
Nella review in oggetto si pone l’accento sul fatto che l’effetto degli SGLT2i sui livelli sierici di acido urico possano contribuire ad un’ulteriore riduzione del rischio cardiorenale.
E’, infatti, documentato, come elevati livelli di urato si accompagnino ad un rischio incrementato di ipertensione arteriosa, malattia cardiovascolare e malattia renale cronica (CKD) anche se rimangono tuttora dei lati oscuri in merito alle sopracitate associazioni; ciò che è certo è che interventi terapeutici volti a ridurre le concentrazioni plasmatiche di urato ovvero incrementarne l’escrezione renale, si associano ad un miglioramento della prognosi cardiorenale.
Le concentrazioni plasmatiche di acido urico sono solitamente aumentate nei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 e ciò contribuisce all’aumento del rischio cardiovascolare; il trattamento con SGLT2i determina un incremento dell’escrezione urinaria di urato e ne riduce le concentrazioni plasmatiche determinando un miglioramento sia dei parametri cardiovascolari, sia della funzione renale.
Da queste osservazioni risulta evidente, quindi, un’ulteriore effetto positivo della terapia con SGLT2i sugli outcome cardiorenali, nonché sugli episodi di gotta ed artrite gottosa che possono manifestarsi nei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2
Fonte: Diabetes Obes Metab. 2019 Feb 14. doi: 10.1111/dom.13670.
E’ evidenza ben conosciuta come ogni singolo episodio di scompenso cardiaco incrementi il rischio di mortalità. La dialisi peritoneale (DP) si pone come alternativa terapeutica nei pazienti con scompenso cardiaco refrattario alla terapia diuretica.
L’obiettivo dello studio è quello di evidenziare l’efficacia della DP nel trattamento dello scompenso cardiaco in termini di status funzionale, endpoint surrogati, tassi di ospedalizzazione e mortalità.
Lo studio è basato sul registro della Società Tedesca di Nefrologia ed include 159 pazienti in trattamento con DP per scompenso cardiaco refrattario nel periodo Gennaio 2010 – Dicembre 2014.
Già dopo 3 mesi di trattamento si è assistito ad una riduzione del peso corporeo, nonché ad un miglioramento della performance cardiaca (classe NYHA); allo stesso tempo, si è anche evidenziata una riduzione dei livelli plasmatici di proteina C-reattiva, una diminuzione del rapporto azotemia (BUN)/creatinina e del tasso di ospedalizzazione per scompenso cardiaco acuto.
In definitiva, quindi, la dialisi peritoneale si configura come una più che valida opzione terapeutica nei pazienti con scompenso cardiaco associandosi ad un migliormaneto di diversi parametri cardiovascolari e non solo. Studi futuri dovranno, però, essere in grado di identificare al meglio quale tipologia di pazienti può giovarsi maggiormente di un simile approccio terapeutico.
Fonte: ESC Heart Fail. 2019 Feb 27. doi: 10.1002/ehf2.12411.